MARTIN. «Riconquistare il mondo, scoprire il pavé»

PROFESSIONISTI | 16/02/2016 | 08:06
Tony Martin è una leggenda delle cronometro con tre ma­glie iridate nel cassetto, ma è anche un corridore che ha dimostrato di essere in grado di conquistare vittorie strepitose nelle corse su strada grazie ai suoi audaci attacchi. Nato a Cottbus il 23 aprile 1985, professionista dal 2008, 75 kg per 1.86 cm, vive in Svizzera con la fidanzata Anna Katarina e nella stagione scorsa ha realizzato uno dei suoi sogni più grandi, vale a dire indossare la maglia gialla del Tour de France, la corsa preferita, do­po aver vinto la quarta tappa con arrivo a Cambrai.

Nonostante il suo incredibile palmares, Panzerwagen vuole raggiungere nuovi traguardi nel 2016 e dimostrare a tutti di essere il numero uno nelle prove con­tro il tempo dopo l’ultimo mondiale in cui ha deluso, in primis se stesso. Ben chiari gli obiettivi: il quarto titolo mondiale nella cronometro e un’altra vittoria di tappa al Tour de France. Ma c’è di più e Tony Martin ha deciso di affrontare per la prima volta le classiche del Nord.

Hai corso a Dubai: come prosegue la tua stagione?
«Da domani correrò l'Algarve, poi Het Nieuwsblad, Strade Bianche e Tir­reno-Adriatico. Come annunciato, di­sputerò la campagna del nord. Fino a un paio di anni fa odiavo il pavé, ma strada facendo ho cambiato idea: la prima volta che l’ho affrontato sono caduto e mi sono fatto parecchio male, la volta successiva è andata meglio e la terza ho vinto. Dopo il successo al Tour nel giorno del pavé, mi è venuta voglia di provare. Questa sarà la mia nona stagione da prof, è arrivato il momento di pormi nuovi obiettivi, di avere nuovi stimoli, di cambiare modo di allenarsi. Correrò Omloop Het Nieuws­blad e Dwars door Vlaan­de­ren e, se tutto andrà bene, cercherò di conquistarmi un posto nella squadra per Gand-Wevelgem, Giro delle Fian­dre e Parigi-Roubaix. Ovviamente non posso dire che mi presenterò al via per vincere, ma voglio mettermi alla prova. Sarebbe bello essere utile alla squadra in quelle gare: questa primavera per me sarà una sorta di test e se i segnali saranno buoni mi piacerebbe continuare su questa strada».

Che aspettative hai per le classiche?
«Non ho obiettivi concreti, voglio aiutare la squadra, se così facendo poi riuscirò ad ottenere un buon risultato tan­to meglio. Il nostro team è il più forte in questo tipo di gare, apprenderò mol­to dai miei compagni, non vedo l’ora di inziare le prime corse. Devo imparare i percorsi, i punti critici, la strategia di corsa che è diversa da quella delle corse a tappe. Sono un novellino delle classiche belghe, ma sono ottimista perché sono nel posto giusto in cui assimilare tutte le nozioni fondamentali. Tom (Boo­nen, ndr) ha dichiarato che è convinto che un giorno vincerò la Rou­baix, sono onorato perché lui è Mr Pavè e spero abbia ragione».

Visti i trascorsi, non hai paura di farti male?
«Se pensi ai rischi non prendi parte a nessuna corsa, nemmeno al Tour, che invece correrò anche quest’anno. Il ci­clismo è uno sport rischioso ed è vero, se cadi ti giochi le Olimpiadi e i Mon­diali, ma non ha senso rinunciare a certe occasioni per una corsa sola. Inol­tre il percorso di Rio non è così adatto a me, vincere l’oro obiettivamente non è il pronostico più probabile. La preparazione per le classiche con lavori intervallati, inoltre, può essere buona in vista di un tracciato così du­ro. Stavo pensando di disputare il Giro d’Italia ma facendo le classiche sarebbe stato troppo duro tirare lungo senza mai fermarsi».

Come hai vissuto l’arrivo di un altro te­desco in squadra?
«Marcel Kittel non è solo un mio connazionale, ma un amico di lunga data. Ho un bel rapporto con tutti nel team, ma è bello avere al proprio fianco una persona che ti conosce da tanti anni e con cui puoi parlare anche di questioni personali. In ritiro abbiamo allestito la “stanza tedesca”, sono sicuro in questa stagione riusciremo a raccogliere tanti bei risultati insieme. Rispetto a quando facevamo il treno per Cavendish non cambierà molto, ma senz’altro sia in gara che sul bus si parlerà di meno (sorride, ndr). Battute a parte, il mio ruolo sarà il solito. Abbiamo il nostro programma, sappiamo cosa dobbiamo fare per lanciare lo sprint, dobbiamo portarlo ai 200 metri come facevamo con Mark, poi la responsabilità sarà sua».

Raccontaci la tua storia. A che età hai iniziato a pedalare?
«Da piccolo giocavo a calcio e sognavo di diventare un campione, ma verso i 13-14 anni ho realizzato che non ero abbastanza bravo per diventare un professionista così ho provato col ciclismo. La mia prima bici è stata quella di mamma. Mio papà aveva corso nelle categorie minori, è stato il mio primo allenatore e fin dall’inizio, anche grazie ai suoi consigli, ho riscosso parecchio successo. Vittoria dopo vittoria è cresciuta la mia passione, tanto che ho scelto di intraprendere persino una scuola a indirizzo sportivo. La prima gara a cui partecipai era in un parcheggio, in un circuito con a terra i cuscini e le balle di fieno, finii secondo o terzo nonostante gareggiassi con tanti ragazzi più grandi di me. Fu un buon risultato per il morale».

Come trascorri il tempo libero?
«Sono una persona normalissima, forse anche un po’ noiosa, quando non sono in giro per il mondo amo stare a casa rilassarmi, con gli amici e la famiglia attorno a me. Ho due fratelli, uno più grande e uno più piccolo di me, che non praticano sport; mamma è dottore e papà insegna alle persone come riparare le bici. Non ho hobby particolari, però mi piacciono le macchine. Oltre a guidarle, leggo riviste dedicate e guardo film che ne trattano, mi tengo informato insomma».

Il tuo miglior pregio e il peggior difetto?
«Sono un lottatore, quando voglio qual­cosa faccio di tutto per raggiungerla e questo può essere sia un bene che un male perché se ho un desiderio cer­co di esaudirlo subito, immediatamente. Non sono paziente. So di essere ap­prezzato perché sono un “duro”, uno che ci mette l’anima sia quando vince che quando perde, non mi definirei un atleta vecchio stampo ma più semplicemente “tedesco”».

La top 3 delle tue vittorie?
«Al primo posto metterei il primo titolo di campione del mondo che ho vin­to, seguito dalla tappa dell’anno scorso al Tour de France e dalla medaglia d’argento conquistata a Londra 2012, la mia prima Olimpiade».

Immagina il podio di Rio e quello dei prossimi mondiali a crono in Qatar: chi vedi lassù?
«Alle Olimpiadi dal gradino più alto al più basso direi Froome, Dumoulin e (spero) io ma è difficile fare un pronostico ora, perché il tracciato è più per scalatori che per passisti. Per la sfida iridata invece voglio dimostrare di esserci, dopo la sconfitta bruciante dell’anno scorso. A Richmond ho vissuto la classica giornata no, ho sofferto le conseguenze dell’infortunio del Tour, non ci sono arrivato con la preparazione ideale e ho dovuto pagare dazio. Da allora ho cambiato molte cose: totalmente la posizione in sella, su cui stiamo continuano a lavorare, alcuni materiali, i programmi di allenamento... Mi auguro che a Doha si possano vedere i frutti dei nostri sforzi. Dovrò ve­der­mela con Dumoulin, Can­cel­la­ra, Malori che è andato molto for­te l’anno scorso e non solo. La lot­ta per il podio sono convinto sarà più aperta rispetto all’ultima edizione».

Come ti immagini tra 10 anni?
«Voglio correre ancora a lungo, ma a volte mi capita di pensare al futuro: vorrei guardarmi indietro e scoprirmi soddisfatto della mia carriera. Se non avessi fatto il corridore? Proba­bil­men­te sarei diventato poliziotto visto che ho studiato per quello. L’ac­cademia militare mi ha dato molta disciplina. Pen­san­do al futuro, sogno una bella famiglia: vorrei diventare papà e avere una vi­ta tranquilla».

Giulia De Maio, da tuttoBICI di febbraio
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