L'INTERVISTA. Andrea Prati, una scelta coraggiosa

| 02/04/2011 | 09:03

I campionati del mondo di Apeldoorn hanno riacceso i riflettori sul settore pista e hanno fatto sorgere nuove discussioni sulla condizione del movimento azzurro. Per arricchire questo interessante dibattito vi proponiamo la storia di un ragazzo che ha fatto una scelta anomala nel panorama del ciclismo italiano. Tutti i suoi colleghi davanti al bivio strada-pista hanno optato per la prima, lui no.

Chi è Andrea Prati? «Un ragazzo che ha compiuto 21 anni lo scorso sabato, abita a Usmate Velate (MB) e pratica ciclismo da sempre. 1.70 mt per 76 kg, di carattere socievole e istintivo. Diplomato in Elettrotecnica all’ISS Virgilio Floriani di Vimercate; oggi oltre che corridore del Team Maggioni, personal trainer e istruttore di difesa personale nella palestra Wellness di Casatenovo».

Come ti sei avvicinato al ciclismo? «Grazie a una foto, che rappresenta la vittoria di mio padre Stefano a Monza nel 1980, era un ragazzino della categoria Esordienti e vestiva la maglia del Pedale Arcorese. Papà ha corso fino alla categoria dilettante, di foto sue in bici ne ho viste parecchie, ma quella ha davvero qualcosa di speciale. La prima volta che l’ho vista mi ha folgorato, tanto che oggi la tengo appesa in camera. La mia prima gara, da G1, nel 1996; la prima volta in pista due anni più tardi, a Dalmine da G3 per la finale del campionato regionale primi sprint».

A Melzo nel 2008 la tua ultima corsa su strada. Da allora solo pista, come mai? «Scelta all’inizio forzata: in seguito a un incidente con una macchina occorsomi in allenamento, per il conseguente schiacciamento di due vertebre, non potevo stare troppo tempo in bici. Questo “obbligo” iniziale ha lasciato presto spazio alla passione. La scintilla è scoppiata quasi subito: le gare nei velodromi mi stimolavano di più rispetto a quelle su strada e i risultati arrivarono presto, il che non guasta mai».

Il tuo palmares che dice? «L’anno scorso ho vinto il Campione Italiano Velocità a Squadre tra gli Open con il mio grande amico e maestro Roberto Chiappa (con cui Andrea si allena da due anni, ndr) e Loris Paoli; in più mi sono piazzato quarto nel Keirin. Da Junior nel 2007 a Cottbus (Germania) sono arrivato 6° al Campionato Europeo Velocità Individuale e ho vinto la Coppa Europa Velocità a Pordenone, l’anno dopo a Pruzkow (Polonia) ho chiuso 7° nel Campionato Europeo Velocità a Squadre e a Cape Town (Sudafrica) 9° nel Campionato Mondiale della stessa specialità, ho fatto miei i campionati italiani della Velocità Individuale e a Squadre. I risultati raccolti nelle categorie minori sono frutto di tanti sacrifici e di un lavoro eccezionale fatto dai tecnici della Nazionale di allora Federico Paris e Pavel Buran, che erano riusciti a costruire un gruppo davvero compatto e a seguire gli atleti nella preparazione in maniera continua, tenendo tutto sotto controllo e senza lasciare nulla al caso».

Miglior tempo nei 200 mt? «11”066, fatto registrare a Cottbus nel 2007 (su una pista all'aperto in mescola di cemento e resina, ndr)».

Cos’è per te la velocità? «Fatica, impegno, sconfitte, trionfi, concentrazione, tensione, insomma tutto. Quando mi avvicino alla partenza di una gara in cui me la posso giocare è come se attorno a me il mondo si fermasse, siamo solo io e il mio avversario. É proprio questa emozione indescrivibile, che provo ogni volta che entro in un velodromo, a non farmi mollare mai, anche quando le cose non vanno per il verso giusto».

In Italia una decisione come la tua è senz’altro inusuale.

«Sì, la strada da più certezze economiche o almeno così si dice. Per quanto mi riguarda nelle gare lunghe sono tagliato fuori e la pista mi dà delle sensazioni che non mi ha mai dato nessun’altra disciplina».

Considerato quanto il nostro paese investe nel settore, la tua scelta è anche un po’ utopica.

«Utopica spero di no, rischiosa e coraggiosa senz’altro. L'idea di mio padre di metter su una squadra concentrata solo sulla pista è nata all’incirca un anno e mezzo fa proprio perché in Italia è difficile trovare un team che dia spazio e fiducia a un pistard a tempo pieno».

Quali sono i limiti della nostra pista? «Il problema principale è che non c’è uno sbocco per i ragazzi che vogliono praticarla al cento per cento. Un giovane che arriva alla categoria Under 23 deve scegliere tra la strada, per essere sicuro di correre e giocarsi la chance di un futuro da professionista, o una bici appesa al chiodo; se ci si specializza solo in una disciplina, come può essere quella della pista, già solo per partecipare alle gare e trovare degli sponsor si devono fare salti mortali».

Concretamente cosa andrebbe fatto per migliorare questo settore? «Per iniziare, bisognerebbe arricchire di eventi il calendario, aprire le gare anche agli Open e agli Amatori che vogliono mettersi in gioco con Juniores e Under 23 come accade in Svizzera, Francia e altri paesi che credono di più nella pista».

Che effetto ti ha fatto vedere gli azzurri ai recenti mondiali? «Che dire...Abbiamo visto delle belle cose con Viviani e la Bronzini, che purtroppo restano delle mosche bianche del nostro ciclismo. Per quanto riguarda le specialità veloci purtroppo siamo indietro anni luce rispetto ai migliori e se non cambieranno le cose sarà sempre peggio....».

 

Giulia De Maio

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