Davide Frattini, la storia di un emigrante del pedale

| 06/12/2010 | 08:59
«Hello my name is Davide Frattini». Così il varesino, che dal 2004 è emigrato a correre negli Stati Uniti, inizia la sua presentazione. Oggi ha 32 anni ed è sposato con una bella donna canadese di nome Kirsten. Si descrive come «una persona semplice, "easy going" come dicono qui; come un atleta completo, un uomo squadra. Svolgo principalmente attività su strada e quando posso ciclocross».
Conosciamolo meglio.
Come mai hai scelto di trasferirti all’estero?
«Dopo due anni da professionista con il Team Alessio, a causa di una stagione infelice e macchiata da infortuni non sono riuscito a trovare un contratto adeguato in Italia e nemmeno in Europa. Anche se sono passato pro dopo aver vinto il Giro Baby, non sono riuscito ad avere una seconda chance. Volevo smettere, ma ho scelto di provare per un anno all'estero, senza grossi obiettivi. Mi sono detto: "Al massimo imparo bene l'inglese, mi servirà per un domani..."».
Com’è la vita di un ciclista “emigrato”?
«Abbastanza normale, sin da dilettante ho corso per squadre extra-regionali, quindi ero abituato a vivere per alcune settimane o mesi lontano da casa e amici. I primi anni in cui mi sono trasferito negli States tornavo a casa 2/3 volte durante la stagione e poi passavo da Ottobre a Febbraio in Italia. Negli ultimi anni invece vengo a casa per un mesetto solo a dicembre, per le feste natalizie e per rinnovare i documenti per il visto lavorativo americano».
Ti manca casa?
«I primi anni molto. Poi mi sono abituato e qui ho conosciuto mia moglie (è giornalista per Cyclingnews.com, ndr). Con Internet e Skype sono sempre in contatto con famiglia e amici».
Pensi che prima o poi tornerai a vivere in Italia?
«Per il mio lavoro e quello di mia moglie al momento non è possibile. Come per tutti i ciclisti stranieri che corrono per un team americano, che svolge la maggior parte del calendario negli USA, vivere negli States per almeno dieci mesi all’anno è la cosa più semplice, mi evita di fare lunghi viaggi andata/ritorno dall'Italia. La bella notizia è che con la nuova squadra farò una buona parte di stagione in Europa, quindi quest’anno tornerò a casa più spesso. L'Italia è l'Italia. Un domani, lavoro permettendo, è facile che ci torni a vivere dodici mesi l'anno».
Che differenze hai riscontrato tra il ciclismo italiano e americano?
«Inizialmente ho notato che gli americani privilegiano le corse a circuito, qui li chiamano "criterium". Una specie di tipo pista di 60/100 km su un circuito cittadino di circa 2 km. Per loro credo sia come guardare una gara di nascar, una gara di auto. C’è davvero un sacco di gente lungo tutto iI percorso. Credo che l'“effetto Armstrong" abbia poi portato fans e organizzatori a concentrarsi maggiormente sulle corse a tappe, che anche qui negli ultimi anni stanno facendo passi da gigante. Con il passare degli anni lo stile di corsa è cambiato parecchio perché anche negli States incominciano a esserci molti atleti stranieri che portano nuovi input e stili di corsa europei».
Quest’anno com’è andata la stagione su strada?
«Direi bene, non sono mai stato un corridore che vince parecchio, ma sono sempre presente tutto l'anno in appoggio della squadra. In più nonostante mi sia rotto la clavicola a gennaio in Italia, sono riuscito a ottenere buoni risultati già alla Vuelta Mexico in marzo. Sono giunto terzo nella classifica finale dei GPM al Tour della California e ho conquistato vari piazzamenti al Tour of Utah e al Tour of Qinghai Lake in Cina».
Quindi sei soddisfatto?
«Non sono il tipo di persona che guarda solo al numero di vittorie, ho una visione un po’ più ampia del tipico tifoso da bar. Sono soddisfatto perché ho dato il mio contributo a quasi tutte le vittorie ottenute dal Team Type 1 e penso che con un po’ più di fortuna, quando ho avuto le mie possibilità, avrei potuto anche cogliere un vittoria personale».
E per quanto riguarda il ciclocross com’è andata?
«La stagione è andata bene: ho corso16 gare UCI, vincendone 4 e divertendomi parecchio. Ho avuto la fortuna di trovare squadre qui negli States che mi hanno lasciato correre, "L'importante è che non ti fai male" ti dicono. Non potendo fare una stagione intera di cross (inizierà la stagione su strada al Tour de San Luis in Argentina a metà gennaio, ndr), ho puntato più che altro a divertirmi, a tenermi allenato e a non farmi male».
Per il 2011 lasci il Team Type 1 per la UnitedHealthcare Pro Cycling Team.
«Sì, è stata una scelta sofferta, ma dovuta. Sono entrambe ottime squadre, ma la UnitedHealthcare mi ha offerto un contratto quest'estate, quando la Team Type1 non aveva ancora finalizzato il budget per la nuova stagione. Mi avrebbero voluto tenere, ma il "treno" della UnitedHealthcare è arrivato prima. Tra l’altro entrambe diventeranno Professional Continental ed entrambe avranno base in Italia».
Quali sono i tuoi obiettivi?
«Sono nel gruppo per le corse a tappe sia americane che europee. Vorrei far bene nelle corse italiane a cui prenderò parte, soprattutto per I miei tifosi italiani, che finalmente non dovranno volare negli USA per vedere una mia corsa; poi punto al Tour of California e alle gare UCI in North America».
E guardando ancora un po’ più in là nel tempo?
«Con uno sguardo al futuro direi che la stagione 2012/2013 sarà il mio ultimo anno, con i mondiali di cross in Louisville, Kentucky (USA) mi potrei concentrare più sul cross».
Per concludere, un messaggio a chi dall’Italia fa il tifo per te…
«Saluto tutti I miei fans e in particolare il mio gruppo di aficionados varesini di Brunello. See you soon!».

Giulia De Maio
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